martedì 28 agosto 2012

Lidia

Lettera di Lidia Macchi

pubblicata da la virtù della purezza, questa sconosciuta il giorno Venerdì 27 maggio 2011 alle ore 5.27 (tutti i diritti riservati)


                                                    Carissima Mara,
dalie, Monet

abbiamo appena appeso il telefono ed io mi sono con amarezza resa conto che in fondo ti ho raccontato solo le cose più banali della mia vita di adesso. A me sta capitando una  cosa straordinaria e un po' confusa ma veramente grande; è come se in me adesso ribollissero con chiarezza un sacco di domande e di desideri sulla vita. Il desiderio d'essere felice, d'essere libera, cioè di trattare con libertà,senza essere schiacciata od appesantita da tutte le circostanze concrete della vita, il desiderio di amare con profondità le persone che mi sono care, gli amici, il desiderio di costruire anch'io un pezzetto di storia perché altrimenti la storia ce la fanno gli altri sulla nostra testa e noi viviamo la nostra vita completamente indifferenti a ciò che accade fuori dal nostro cantuccio, che per quanto comodo è pur sempre meschino e determinato da piccole stupidaggini ed angherie quotidiane.

Ecco è come se la mia beata incoscienza, il fare ciò che mi salta in mente, mi avesse profondamente annoiato con la sua stupidità e superficialità. Mai come adesso la vita mi sembra profonda e grande e soprattutto misteriosa.

E' proprio un mistero grandissimo che io ci sia, esista, che sia un fragile puntolino su questo pianeta che ruota con leggi straordinariamente perfette intorno al sole, ed il sole non è che un microbo nell'immensità spaziale e temporale del cosmo.

Ma cavoli, basta sollevare gli occhi al cielo di notte per intuire che la vita di tutto questo universo è un mistero grandioso e noi che siamo uomini e abbiamo e possiamo avere la coscienza di ciò, sprechiamo il nostro tempo afflitti da piccole banalità e da piccoli dolori, senza chiederci, perché ci fa troppa paura ascoltarci per un attimo, di ascoltare quella voce che parla in noi, che grida che la vita non può non avere un senso, senza chiederci perché ci siamo, perché siamo fatti così uno diverso dall'altro, eppure al fondo, tutti con lo stesso desiderio.

Dio mio, ma perché se queste domande e desideri ci sono noi ci rassegniamo, viviamo in fondo disperati cioè non attendendoci niente dal domani, chiudendoci in una gabbia che diventa la nostra tomba al limite concedendoci qualche ricordo nostalgico dei bei tempi. Ma quali bei tempi? E' inutile piagnucolare; siamo noi che per primi abbiamo presuntuosamente rinunciato ad essere seri, a prendere in considerazione tutti i grandi desidere che si agitano in noi, perché ci fa comodo piagnucolare, stare nel nostro brodo, fare dei piccoli e miseri peccatucci per credere che se almeno non siamo dei santi, beh, un po' cattivelli però lo siamo. Invece i nostri peccati fanno ridere i polli, consistono al massimo nella sensualità, in trasgressioni che in realtà fanno tutti, sono alla portata di tutti, perché in fondo siamo solo dei mediocri. Magari si incontrasse qualche grande peccatore profondamente abbagliato dal male!!!

E quand'anche io sappia tutto, come funziona l'universo intero, e come faccio a respirare, a camminare, a mangiare, chi si sogna per un attimo di ascoltarti quando ti chiedi chi sei, che cosa ci fai sulla faccia di questa terra; di queste domande hanno tutti paura e nessuno ne parla. Ma perché farsi delle domande inutili, perché affannarsi, non pensarci, lascia perdere. Oggi ci sei, domani, domani muori e buonanotte...

Buonanotte un corno!!! Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l'unica in questo mondo superficiale, perché vuole essere tale, urlerò a squarciagola finché morirò quello che io sento.
Un mese fa mi è capitato quasi per caso di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno, che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori. E al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno colpito. Spiegava, anche, tutti i procedimenti teorici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti e mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente.

Io ero andata lì quasi per caso, perché queste persone di Varese ed altre di Milano che lo conoscono mi avevano invitato ed io sono andata lì pensando di ascoltare le solite cose e invece no.
E' strano perché più delle sue parole, mi ha colpito lui, il suo sguardo profondo, attento, qualcosa di inafferrabile, un uomo libero, aperto e non arrabbiato o irato con la vita. Non so dirti!!! Ma è come se custodisse un segreto, una forza non sua.

Io sento che devo parlargli, che lui non ha calpestato le domande che si agitano dentro di me. Avrei molte cose da chiedergli. In un modo o nell'altro dovrei incontrarlo ancore.
Adesso non mi sembra più di essere sola, alla ricerca disperata di qualcosa di cui tutti se ne fregano; è come se qualcuno facendomi sobbalzare, perché è arrivato inaspettatamente mi avesse detto "Ehi sono quì, non urlare e non disperarti, perché seguendo questa strada usciremo dalla foresta".

E io voglio uscire dalla foresta perché la vita é mare, cielo, monti e pianure, case, alberi, volti umani, stelle, sole e vento e noi siamo fatti per questo Infinito che c'è. Basta solo guardarsi in giro e per questo seguirò questo qualcuno che mi è venuto incontro nel groviglio della foresta e che mi dice: guarda lassù tra le foglie, vedi, c'è un pezzettino di cielo blu, blu, usciamo a vederlo tutto...
                                                                                                                  Lidia

lunedì 27 agosto 2012

In Memoria

VALENTINA

27/08/88 04/12/2003




Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt. 5,8)

Cezanne - La Casa di Père Lacroix in Auvers

"Per me chi non apprezza Cezanne non ha capito un bigolo !"

domenica 26 agosto 2012

S. Alessandro

Sant'Alessandro. Storie del Martire dipinte da Enea Salmeggia



Fu  il vessillifero della leggendaria legione Tebea, composta da soldati egiziani della Tebaide e comandata dal generale romano Maurizio anch'egli venerato dalla Chiesa cattolica con il nome di san Maurizio.
Secondo la tradizione, la centuria di cui Alessandro era comandante fu spostata intorno all'anno 301 dalla Mesopotamia alle regioni occidentali, prima a Colonia, poi a Brindisi, sino a giungere in Africa.
Durante il lungo viaggio dei legionari, diverse persecuzioni contro i cristiani furono ordinate dall'imperatore Massimiano, ma i soldati si rifiutarono di eseguire gli ordini pagando con la decimazione, avvenuta ad Agaunum, nell'odierna Saint Maurice-en-Valais che si trova nel cantone Vallese, in Svizzera.
Tra gli scampati al massacro, Alessandro riparò con alcuni suoi compagni in Italia, ma fu imprigionato a Milano (nel luogo dove oggi sorge la basilica di Sant'Alessandro in Zebedia, in piazza di Sant'Alessandro) e qui si rifiutò di abiurare alla fede cristiana come ordinatogli dall'imperatore Massimiano. Fuggito dalla prigione, grazie all'aiuto di Fedele di Como e del vescovo Materno, sulla strada verso Como, secondo la leggenda compì il miracolo di risuscitare un defunto.
Dopo essere stato riconosciuto, catturato e riportato davanti a Massimiano, Alessandro abbatté l'ara preparata per il sacrificio agli dei romani, facendo infuriare l'imperatore, che lo condannò a morte per decapitazione; la leggenda vuole che il carnefice non osasse colpirlo poiché Alessandro gli appariva "come un monte" e, per lo spavento, gli si sarebbero irrigidite le braccia: la stessa sorte sarebbe toccata ad altri soldati chiamati ad eseguire la condanna; pertanto fu rimesso in carcere, a morire di stenti, ma riuscì nuovamente a fuggire.

Alessandro passò miracolosamente l'Adda all'asciutto e si nascose in un bosco vicino a Bergamo, presso il Ponte della Morla, da un patrizio locale, Crotacio. A Bergamo Alessandro iniziò un'opera di conversione alla fede cristiana degli abitanti della città, tra cui i futuri martiri Fermo e Rustico, parenti di Crotacio. Fu presto scoperto da alcuni soldati romani che lo condussero in catene a Bergamo, dove fu condannato alla decapitazione, che questa volta fu eseguita senza inconvenienti il 26 agosto 303 nel luogo dove ancora sorge la Chiesa di Sant'Alessandro in Colonna.
Grazie alla nobildonna Santa Grata, il corpo del Martire fu trafugato e trasportato nel podere della famiglia di lei, dove fu inumato. La Santa, alcuni giorni dopo l'esecuzione, avrebbe trovato le spoglie di Sant'Alessandro, la cui presenza era segnalata da gigli, cresciuti in corrispondenza di alcune gocce del sangue del Martire, le avrebbe raccolte e fatte seppellire in un orto della sua famiglia, fuori della città, là dove sarebbe sorta la grande basilica di Sant'Alessandro, poi abbattuta durante la costruzione delle mura venete di Bergamo.

sabato 25 agosto 2012

Il Testamento di Marta

 



Tendenzialmente si tende a ricordare i carnefici e non le vittime.Questa volta vorrei cambiare rotta.
Queste parole le lessi molti anni fa,sul libro "La Nera"  del duo Lucarelli Picozzi e mi colpirono subito.
A volte non sono in grado di aiutare il prossimo come vorrei,convincerlo di cosa sia la scelta giusta o meno,o perlomeno convincerlo a ragionarci su.
Quindi faccio appello a testamenti,testamenti di vita si intende,la summa delle esperienze raggiunte da una persona,anziana o giovane.
Penso a Marta,penso a Ultimo,a Paolo ,Giovanni , Sebastiano ,Salvatore e quanti hanno combattutto contro le avversità della loro vita pur non avendo l'eco della notorietà,eroi anonimi ,ma non meno sigificativi.
Penso a loro,cerco di aiutare chi ha bisogno,e intanto aiuto me stesso,perchè è cattivo consigliere chi non crede alle proprie parole.

ASSOCIAZIONE VOLONTARI DI CAPITANO ULTIMO

Tra le mani ieri mi è passato un giornale da "supermercato" ,tipo "DonnaD" ,con articoli di vario genere ,ricette orpscopi etc.
Ciò che mi ha colpito era la copertina :un uomo di spalle e un falco sul braccio e a piè di pagina leggo "Intervista a Ultimo".Possibile?
Ultimo è Capitano Ultimo,poco importa il grado effettivo (maggiore) e il nome,se dici Capitano Ultimo,sai già di chi stai parlando.O dovresti saperlo.

Leggo con piacere che Ultimo ha promosso con altre persone (Raoul Bova,l'Ultimo televsivo) la nazionale cantanti semplici persone un importante progetto : la ASSOCIAZIONE VOLONTARI DI CAPITANO ULTIMO (con sede a Roma),un’organizzazione di volontariato che opera nei settori dell'assistenza sociale e socio sanitaria; beneficienza; istruzione e formazione; attività sportive di tipo dilettantistico; protezione e valorizzazione dell’ambiente, del paesaggio e della natura; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili. L’associazione è impegnata nella gestione della Casa famiglia per minori “Capitano Ultimo” che si trova a Roma in via della Tenuta della Mistica snc. Nella stessa area organizza incontri didattici e formativi di educazione ambientale e legale rivolti agli studenti delle scuole materne, primarie e medie di I° grado, nonché ai minori ospiti di case famiglia.I volontari sviluppano iniziative ed eventi di raccolta fondi a favore di soggetti deboli e organizzano corsi di formazione professionale a favore dei minori ospiti delle case famiglia affinchè, al raggiungimento della maggiore età, abbiano conseguito una propria autosufficienza culturale ed economica. Per le famiglie sono stati realizzati spazi e locali per eventi enogastronomici (3337554685 – 06/2252310) , dimostrazioni di volo dei rapaci diurni e notturni italiani ed un orto didattico . Attraverso l’ impegno sociale e la solidarietà si vuole togliere spazio vitale alla criminalità e al degrado sociale che la alimenta, aiutaci e lotta con noi.
( fonte : pagina officiale facebook ) Dal canale youtube "fansforzeordine" riprendo un"intervista del tg5 a Ultimo in materia Link
Tutto ciò mi ricorda le parole di Ultimo nel suo libro "Ultimo ,l'uomo che arrestò Totò Riina": essere "ultimo tra gli ultimi","carabinieri per e tra la gente" lontano dalla burokrazia,sì,quella con la" K" ,quella fine a se stessa,quella che è ostacolo ,quella che costruisce "muri di gomma" a chi vuole fare il suo lavoro.


Lascio il LINK

mercoledì 22 agosto 2012

La figlia del Tenente -YANEZ - Davide Van De Sfroos



Ti ho baciato nella via più scura
dove l'ombra si veste di pizzo
con i dubbi marciti da un pezzo
e le grondaie che piangon di già
siamo lupi con le scarpe nere
sulla strada senza primavere
siamo denti stretti in mezzo al buio
e ogni battito di cuore è un guaio Maledetti come due vampiri
sempre in fuga quando arriva il sole
perché il giorno non ci vuol vedere
fare quello che facciamo qui.

E alura te speci che...
Suta l'ala de la sciguèta
Fermu cume un saant de
Marmu
Cumè una quercia
cumè un bull
e cumè l' oecc del pèss gio in tèra
cumè l'umbria de la buteglia
cumè la cruus del cimiteri
cumè sto pràa pièe de guldoni urmai spendüü
te speci che fin che'l suu ghe n'ha pièe i ball
in che passa il pipistrèll
finche il muund gh'a pioe i paròll
e me podi scultà i tòo
me te speci che...

lo usavo già questo coltello
quando tu guardavi il carosello
ho rubato quel che non avevo
l'ho venduto a chi lo aveva già
ho imparato dai fili d'erba
a piegarmi dentro la bufera
a rialzarmi come niente fosse
e resistere anche alla galera
e cupido forse è un deficiente
o di notte non ci vede niente
il giorno sa che ero un delinquente
e che tu sei la figlia del tenente.

Ma me te speci che
induè finissen tücc i straad

insema ai cicatriis del müür
insema ai cioo e ai machin moort
insema al can senza un gamba
duè 'l destén scapuscia e stramba
e duè i raagn fann la macumba

me te speci che

al capolinea della decenza
duè la soort la g'ha mai pazienza
duè la soort la g'ha mai speranza e
temperà cumè una matita
per riscriiv un'oltra vita
almenu in de la nocc
me te speci che
me te speci che

Traduzione


Ti ho baciato nella via più scura
dove l'ombra si veste di pizzo
con i dubbi marciti da un pezzo
e le grondaie che piangon di già
siamo lupi con le scarpe nere
sulla strada senza primavere
siamo denti stretti in mezzo al buio
e ogni battito di cuore è un guaio
Maledetti come due vampiri
sempre in fuga quando arriva il sole
perché il giorno non ci vuol vedere
fare quello che facciamo qui.
E allora ti aspetto qui
Sotto l'ala della civetta
Fermo come un santo di marmo
Come una quercia, come un sasso
E come l'occhio del pesce per terra
Come l'ombra della bottiglia,
come la croce del cimitero,
come questo prato pieno di preservativi ormai spesi
ti aspetto finché il sole ne ha piene le balle
finché passa il pipistrello
finché il mondo non ha più parole
e posso ascoltare le tue.
Ti aspetto qui.
Io usavo già questo coltello
quando tu guardavi il carosello
ho rubato quel che non avevo
l'ho venduto a chi lo aveva già
ho imparato dai fili d'erba
a piegarmi dentro la bufera
a rialzarmi come niente fosse
e resistere anche alla galera
e cupido forse è un deficiente
o di notte non ci vede niente
il giorno sa che ero un delinquente
e che tu sei la figlia del tenente.

Ti aspetto qui
Dove finiscono tutte le strade
Insieme alle cicatrici del muro
Insieme ai chiodi e alle macchine morte
insieme al cane senza una gamba
dove il destino inciampa e stramba
e dove i ragni fanno la macumba
Ti aspetto qui
Al capolinea della decenza
Dove la sorte non ha pazienza
Dove la sorte non ha speranza
E temperato come una matita
Per riscrivere un'altra vita
Almeno nella notte
Io ti aspetto qui
Io ti aspetto qui

domenica 19 agosto 2012

Sant'Ambrogio Olona 1859-1927

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Sant’Ambrogio Olona con 622 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento I di Varese, circondario II di Varese, provincia di Como.
Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 640 abitanti (Censimento 1861). Sino al 1863 il comune mantenne la denominazione di
Sant’Ambrogio e successivamente a tale data assunse la denominazione di Sant’Ambrogio Olona (R.D. 8 febbraio 1863, n. 1192). In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867). Popolazione residente nel comune: abitanti 698 (Censimento 1871); abitanti 775 (Censimento 1881); abitanti 880 (Censimento 1901); abitanti 1.064 (Censimento 1911); abitanti 1.201 (Censimento 1921). Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Varese della provincia di Como. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Nel 1927 il comune venne aggregato alla provincia di Varese. Nel 1927 il comune di Sant’Ambrogio Olona venne aggregato al comune di Varese (R.D. 24 novembre 1927, n. 2247).

venerdì 17 agosto 2012

Chi resta e chi va

Riprendo questo testo più per me che per i miei pochi lettori


Varese, Basilica di San Vittore, 7 novembre 2011

Ti ringraziamo, Signore Gesù, perché ci hai commossi fin qui oggi. Non è una svista linguistica, ma un giudizio che dice fino in fondo la verità di quello che stiamo vivendo in questo momento assolutamente unico: siamo qui perché un Altro ci ha chiamati, ci sta muovendo, ha così a cuore la nostra vita che ci ha condotti fin qui insieme, cioè ci ha com-mossi. E ha cominciato a commuoverci qualche tempo fa: 23 anni fa per il padre e la madre di Giovanni, qualche tempo dopo (fino a poche ore fa) per ciascuno di noi. Altrimenti non saremmo qui.
Perché è il Signore, è Lui, Colui che non possiamo cercare tra i morti perché è vivo! È resuscitato, cioè è qui adesso. Sta accadendo adesso, nella festa della vita che è la Sua Santa Eucaristia che stiamo celebrando. È questo Signore che un giorno è entrato, discretamente e definitivamente, nella vita di Giovanni: nel giorno del suo Battesimo, il regalo più grande che i suoi genitori hanno fatto alla sua vita. E poi attraverso l’incontro definitivo, affascinante, pieno di bellezza, di musica, di gioia, di letizia: è stato l’incontro con il carisma donato a don Giussani che, a un certo punto, ha affascinato con la sua forza di bellezza irresistibile il cuore, la libertà, la ragione, la carne di Giovanni. Perché noi abbiamo avuto la grazia di incontrarlo così.
Così che oggi, alla radice del nostro cuore, sta balbettando in qualcuno, in altri forse in maniera più chiara, più potente, la domanda dei discepoli di Gesù consegnata per sempre al Santo Vangelo. La domanda che Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Bartolomeo, davanti alla persona di Gesù, davanti ai Suoi gesti e alle Sue parole, sentivano prepotente ergersi dentro di loro, fino ad affiorare sulle loro labbra: «Chi sei Tu, cui il mare e il vento obbediscono?». Chi sei Tu, che sei capace ancora oggi di affascinare così la nostra vita? Chi sei Tu, che hai preso fino alla radice il cuore di Giovanni e hai compiuto la sua vita? Perché quando ci si congeda da questo mondo, la ragione è una sola (la Chiesa l’ha ricevuta, questa ragione, la custodisce e l’annuncia al mondo in maniera instancabile): il congedo da questa vita avviene quando il nostro compito si compie, quando abbiamo assolto il nostro compito. A 23 anni, a 16 anni, a 100 anni… La morte, l’ultimo atto di una vita che si è consegnata, è il suggello di questo.
Siamo qui perché noi abbiamo avuto la grazia di incontrare questo amico. Con gli occhi sempre aperti, con il cuore sempre attento, con una generosità senza limiti non dovuta alla bellezza del suo temperamento. Giovanni non ha avuto pudore nel manifestare nella sua vita il segreto che l’animava, la forza che la rendeva giovane ogni giorno, la bellezza che l’affascinava: forza, bellezza, bontà, verità, che hanno il nome e il volto di Gesù Cristo. A questa Presenza, Giovanni ha consegnato la sua vita. E il Signore è stato generoso: attraverso di lui, infatti, ha toccato almeno le vite di noi qui oggi. E chissà quante altre. Così che il Signore, attraverso di lui, ancora una volta ha confermato il metodo con cui sta nella storia, con cui rimane presente, vivo tra i vivi: il metodo è la testimonianza. Così noi possiamo ancora oggi conoscere Cristo, e dopo la vita terrena di Giovanni possiamo dire, e dobbiamo dire: «Signore grazie, perché ti conosciamo di più: Ti sei concesso a noi, attraverso Giovanni». Perché è questo che è veramente accaduto.
Qualcuno, incontrandolo in questa stagione così intensa della sua vita, quando lo vedeva così limpidamente ingenuo di fronte alle cose, faceva fatica a trattenere un sorriso lievemente imbarazzato. Di quell’imbarazzo strano che ci prende sempre, quando siamo davanti ai testimoni del Signore, davanti ai bambini. Perché essere cristiani vuol dire essere chiamati a diventare grandi come un bambino, e Giovanni è diventato così rapidamente grande come un bambino, che il Signore gli ha detto: «Vieni, servo buono e fedele, vieni. Adesso continuerai a lavorare con me dall’altra parte». Cioè più presente di prima. Quel sorriso imbarazzato che ci mette un po’ in difficoltà, perché facciamo ancora fatica ad arrenderci di fronte alla testimonianza disarmante del Mistero. Eppure siamo costretti a renderci ancora conto che veramente si può vivere così, come ha vissuto Giovanni. Cioè lasciando che il Signore diventi realmente il Signore della mia vita. Il Signore dell’istante. Il Signore della libertà. Il Signore del cuore. Il Signore della ragione. Il Signore della carne e del sangue.
Qualcuno tornerà a casa più pensoso, perché il testimone ci inquieta. Come è inquietante la presenza del Signore, quel Signore che - come don Giussani instancabilmente ci ricordava - ama la nostra libertà più della nostra salvezza. Per questo è inquietante. Eppure è così segretamente atteso, così desiderato. Così che quando incontriamo i Suoi amici, i Suoi testimoni, coloro che hanno avuto l’umiltà e il coraggio di rispondere alle domande di Gesù… Come è stato per Giovanni, perché Giovanni ha risposto alle domande di Gesù, alle domande consegnate per sempre alla Sua parola scritta e santa, il Vangelo: «Giovanni, che cosa stai cercando?». È la domanda che fa ad ognuno di noi: prima di morire bisogna rispondere a questa domanda! E non sappiamo quando accadrà. «Che dice la gente di me, Giovanni? E tu cosa dici?». Fino a quel momento drammatico e supremo in cui il Signore ha avuto il coraggio di chiedere a Giovanni, come a noi oggi: «Giovanni, se ne sono andati tutti. Non hanno retto di fronte allo scandalo di un amore così grande che si concede nella carne, perché se tu non mangi la mia carne… Giovanni, vuoi andartene anche tu come gli altri?». E Giovanni è rimasto: se andiamo via da te, Signore, dove andremo? Che ne sarebbe della nostra vita senza di te? Della nostra vita, del nostro piangere e del nostro sorridere, del nostro lavoro e del nostro amore, delle nostre lacrime e della nostra fatica. Fino all’ultimo: «Giovanni, mi ami tu? Ester, mi ami tu? Flavio, mi ami tu?». A ciascuno di noi che siamo qui: «Mi ami tu? Che cosa ti è veramente caro nella vita?». Il Signore attraverso Giovanni ce l’ha detto: «Non c’è nulla di più caro che la mia vita. Perché senza di me non potete vivere».
Per questo, oggi il nostro sentimento deve, almeno una volta (e forse per qualcuno è la prima volta), sottomettersi al giudizio. E il giudizio non è una parola astratta: il giudizio è questa assemblea di noi qui, che stiamo partecipando dell’atto di Cristo che rinnova il Suo sacrificio per la salvezza del mondo, l’Eucaristia. Questa assemblea è il giudizio sul mondo: Egli è vivo, non cercatelo più tra i morti! Egli è vivo ed è qui! E ha riempito di Sé a tal punto la vita di Giovanni, che il cuore di Giovanni a un certo punto sanguinava di amore per Lui. Questa è la verità sulla sua così breve e intensa vita.
Ma la nostra vita non è mai breve, perché il tempo - ci ricordava don Giussani - non è qualcosa che passa: è Cristo che ci viene incontro. Non dimentichiamolo. Questa è la grande risposta alla domanda inesorabile che Agostino ha consegnato a tutta la storia della Chiesa, a tutti gli uomini: che cos’è il tempo? Il tempo è Cristo che mi viene incontro. Il Signore dell’istante, il Re della gloria, dello spazio e del tempo, capace di riempire la vita nostra fino a quel punto. Di renderla piena di ingenua baldanza. L’abbiamo visto coi nostri occhi, cos’è l’ingenuità. E Giovanni era un ingenuo: non come può essere ingenuo un bambino, che paga ancora il debito dell’essere bambino, ma quell’ingenuità voluta che nasce da un amore totale. Da un sì a Cristo senza riserve. Così si sta nel mondo. A 20 anni e a 90 anni, si sta nel mondo così, perché questa è la ragionevolezza suprema cui siamo chiamati: vivere così perché Cristo è tutto, presente qui e ora.
Grazie, Signore, che ci hai permesso di incontrarlo. Perché adesso, tornando alle nostre case, dicendo «arrivederci» a Giovanni, conserviamo la memoria della sua testimonianza come sorgente della nostra speranza. Perché, nella vita della Chiesa, la speranza coincide con la memoria: fiori bellissimi che rinascono continuamente dalla radice della fede, cioè dall’uomo che Lo riconosce presente.
Torneremo alle nostre case più lieti, ne sono certo. La letizia è quella strana posizione del cuore che nasce miracolosamente dalla fede, e che convive anche con il dolore. E solo in quel momento svela il suo volto vero: il dolore, il nome vero dell’amore. Torneremo alle nostre case più certi, più lieti, e perciò più inquieti: «Chi sei Tu, Signore, capace di compiere (oggi, adesso, qui, in questo momento!) questo miracolo? E di convocarci così?». Non abbiamo potuto rimanere a casa, non abbiamo potuto vivere questo lunedì come il lunedì dell’anno passato o come il giorno prima. Non abbiamo potuto farlo. Perché? Chi sei Tu, capace di riempire di questa letizia la nostra vita? Chi sei Tu, capace di rendere così certa la nostra vita, in un mondo che grida tutto il contrario di questo? Eppure il mondo attende questo. Tutto il mondo e tutti gli uomini attendono Cristo, cioè i suoi testimoni. Giovanni non ha mai detto “no”. E, se è stato possibile per lui, è possibile per me ed è possibile per te. Nell’abbraccio di Cristo che è il Battesimo, nel germogliare continuo, nel rinnovarsi instancabile del nostro essere nuova creatura, questa certezza diventa ogni giorno più grande.
Per questo, Giovanni, ti diciamo grazie. E, così come ci hai accompagnato in questi brevi istanti così definitivi della tua vita su questa terra, Giovanni, ti preghiamo: non abbandonarci! Anzi, siamo certi che non ci abbandonerai, perché la memoria della tua storia diventa già adesso sorgente di speranza e di certezza rinnovata. Perché sappiamo (altrimenti non saremmo qui) che si può davvero vivere così. La tua testimonianza porterà alla vera domanda: abbiamo bisogno di Te, Signore Gesù. E basta. In ciò che viviamo abbiamo solo bisogno di Te.
Lasciamo che la nostra vita, come quella di Giovanni, si lasci mendicare da Cristo. La cosa più ardua della nostra vita è accettare di essere amati da Cristo così: «Egli, mendicante del nostro cuore, e il nostro cuore mendicante di Lui». Parole indimenticabili proclamate con voce vibrante di emozione e di certezza da don Giussani davanti al Papa (e perciò davanti al mondo intero), il 30 maggio 1998 in Piazza San Pietro. Questa è la bellezza della vita dell’uomo: Cristo, mendicante del nostro cuore, e il nostro cuore mendicante di Cristo. Questa mendicanza è la nostra ricchezza. Questa mendicanza è la nostra certezza. E, per questo, sia lodato Gesù Cristo.


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(Monte Generoso sullo sfondo e Monte Orsa in primo piano, monte alle cui pendici si trova il piccolo paese di Viggiù, dove riposa Giovanni)